Qualche anno fa lavoravo saltuariamente come rider per Deliveroo, il servizio di food delivery. Durante il periodo del Covid, quando è partito, era ancora appena accettabile. Ora è diventato il prototipo della schiavitù tecnocratica del futuro.
Devi fare un selfie ogni giorno per confermare che sei “tu”, sei tracciato in ogni spostamento che fai, è l’unico lavoro in cui i guadagni diminuiscono invece di crescere nel tempo, devi confermare codici 3 o 4 volte ad ogni consegna per… poi finire a litigare con gli altri sfruttati del McDonalds che sono perennemente in ritardo nella consegna degli ordini.
Lo svolgevo in auto, ma in quel periodo non stavo lavorando sulla presenza. Passavo molto tempo guidando, ascoltando musica elettronica ad alti BPM per sfrecciare più veloce e consegnare più ordini (link youtube). Insomma, mi stavo imbruttendo parecchio, ma non me ne rendevo ancora conto.
Poi un giorno, improvvisamente, mentre stavo al volante, ho realizzato qualcosa di tragico ed illuminante allo stesso tempo. Per un attimo sono riuscito ad auto-osservarmi.
Ad uscire dal flusso del pensiero, che prima di quel momento scorreva sempre impetuoso, soprattutto quando guidavo.
In quel periodo facevo un sacco di pensieri metafisici.
La mia mente andava in sovraccarico ogni giorno pensando alle modalità per uscire dall’illusione attraverso salti temporali e portali quantistici.
A momenti pensavo così intensamente che sentivo dolore al cervello. Non mal di testa, ma dolore provocato dall’intensità del pensiero.
Godevo delle possibilità illimitate della mente, della sua capacità di considerare l’inconcepibile, dei collegamenti concettuali che mi facevano venire più brividi ed emozioni di un giro alle montagne russe di Gardaland. Gustavo la sua apparente potenza, la sua sconfinata creatività, l’essere senza limiti, senza dimensioni, senza confini.
La mente a briglia sciolta, che crea, immagina, collega, si esalta.
Consideravo i pensieri che avevo come geniali, belli, visionari, avanzati. E in questo modo ne giustificavo l’esistenza, anche se il modo con cui si manifestavano era privo di focus e strategia.
Sembravano avere tutti un volume assordante.
Ma quel giorno in auto, ho avuto una realizzazione.
Non un pensiero. Non un idea. No, è stata una pausa, un barlume di luce silenzioso in quel fiume in piena incessante.
Per un attimo sono uscito da chi o cosa credevo di essere.
Poi ho semplicemente osservato. Anzi, ho contato.
Ho lasciato che il flusso dei pensieri ricominciasse, ma stavolta contando con le dita della mano tutti quelli che giungevano alla mente senza che me ne rendessi conto.
Dopo qualche minuto così, una parte di me è inorridita. Ne stavo contando a decine. Senza fermarli. Senza fare nulla. Semplicemente tenendo il conto.
L’altra parte di me continuava imperterrita a pensare di essere filosofica, intelligente, evoluta, a collegare senza sosta e senza misura. Quella appena emersa silenziosamente era incredula, ma anche eccitata da quello che stava accadendo. Una costantemente rifletteva e cercava porte, aperture, limiti da sfondare attraverso il pensiero. Non si rendeva conto che quella era la sua prigione, in realtà.
Ma quell’altra che contava in silenzio tra l’esterrefatto e il divertito stava in verità aprendo una breccia, un varco in quella gabbia fatta di pareti invisibili.
Il divertimento non durò molto.
Già da un po’ mi sentivo strano, quella sera. Ma questo non fermò quella parte di me che aveva svelato il giochino. Ora era stato smascherato e nulla sarebbe stato più come prima.
Ancora al volante, ho cominciato a sentire dei brividi di freddo. Probabilmente mi stava venendo la febbre. Erano brividi forti. Anzi, erano degli scossoni. E stavano diventando talmente intensi che ho dovuto tornarmene a casa in fretta perché guidare così poteva diventare pericoloso.
Sono arrivato tremante e sconvolto da vibrazioni intensissime di fronte all’ingresso di casa, e con fatica sono riuscito a rientrare. L’unica cosa che riuscii a fare è stata di buttarmi sotto le coperte, e stare lì come un pesce che si dimena e si scuote fuori dall’acqua, in preda ad un raptus, come se gli avessero letteralmente tolto l’ossigeno.
Ecco, credo che quella sera sia successo esattamente questo alla mia mente: ho provato a sottrarle il nutrimento e lei in panico ha attivato le sue contromisure corporee facendomi ammalare e andare in stand-by in tempo record.
Per la mente era meglio mettermi KO piuttosto che stare lì e venire smascherata impunemente.
Quella notte la mia mente, in preda anche allo stato febbrile del corpo, non ha smesso di agitarsi. Ma non poteva durare molto.
Dal giorno successivo è ricominciata inesorabile la conta.
1,2,3,4,5….
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Paolo Adel Danese